La storia di GIGI LENTINI ||| Il campione INCOMPIUTO

«Potevo essere molto di più, anche se ormai ci penso poco. Del calcio mi piaceva solo il campo, tutto il resto no. Sono sempre stato un ragazzo tranquillo, non una testa di cazzo: chi mi conosce, lo sa» Di quanti talenti ci siamo chiesti: «Come sarebbe andata se avesse fatto una scelta invece di un’altra?». Questa è una di quelle storie. Ma è anche la storia di come un determinato modo di raccontare il calcio e i suoi protagonisti possa finire per creare una visione distorta, una narrazione facile ma lontana dalla realtà. Per troppo tempo, si è cercato di ricamare storie sul suo modo di vivere. I capelli lunghi, l’orecchino in vista, le automobili di lusso. Gianluigi Lentini voleva soltanto giocare a calcio. E lo faceva splendidamente, forte di un fisico bestiale e di una padronanza tecnica innata. Chi l’ha detestato, confondendo la sua riservatezza per spocchia, vi dirà che ha fatto troppo poco per meritare di essere ricordato. Chi lo ha amato, invece, vi spiegherà che quel poco è stato più che sufficiente per vedere all’inizio degli anni Novanta un calciatore avanti dieci anni. Gigi Lentini nasce a Carmagnola nel marzo del 1969, ma soltanto perché lì c’è l’ospedale. Cresce infatti a Villastellone, un quarto d’ora più a nord, purissima campagna torinese: il sole che d’estate cuoce i tetti delle case e che d’inverno, invece, si vede meno. Il pallone diventa subito un passatempo che domina le sue giornate e a dieci anni è già nel vivaio del Torino, che in quegli anni non è solo un serbatoio per la prima squadra, ma per tutto il calcio italiano. Sergio Vatta, allenatore della Primavera e maestro di calcio giovanile, era entrato in società in pianta stabile due anni prima: merito anche di un’imbeccata che non era stata assecondata da Gigi Radice. Nel 1975, quando allenava l’Ivrea e per un giorno a settimana faceva l’osservatore per i granata, era stato portato a Lione da Giacinto Ellena, responsabile del vivaio del Toro, per andare a vedere il ventenne Michel Platini, all’epoca stellina del Nancy. Erano anni in cui il mercato estero, per i club italiani, era inaccessibile per regolamento: le frontiere erano ancora chiuse dopo il fallimento mondiale del 1966. Vatta rimase stregato da Platini, facendo presente al club che si poteva opzionare con cento milioni, ma alla fine non se ne fece nulla. Ma torniamo a Lentini, alla sua crescita nel settore giovanile. Vatta lo vede per la prima volta durante una partita degli allievi, a Mathi Canavese. È un colpo di fulmine. Osserva questo corpo che sembra uscito dalle mani di Canova fare su e gi ù sulla fascia, apparentemente senza fatica. C’è da lavorare, ovviamente, perché Lentini si piace un po’ troppo e il luogo comune del dribblomane fumoso è dietro l’angolo. Ma Vatta ha già capito che quella materia prima è fin troppo semplice da plasmare e da rendere un giocatore di altissimo livello. «In pochi hanno fatto la differenza come lui nelle giovanili. La maglia numero 7 finiva sempre stracciata. Una volta fece quattro gol alla Samp, nell’ultimo scartò mezza squadra, si fermò sulla linea di porta, aspettò il portiere e segnò. Eravamo al Fila, il portiere era Pagliuca che lo inseguì per tutto il campo». (Sergio Vatta) Si guadagna in fretta la chiamata delle nazionali giovanili, gli esperti di cose granata lo devono tenere d’occhio già nella stagione 1986-87, quando inizia a trovare un po’ di spazio in prima squadra agli ordini di Radice e vince il Viareggio in Primavera, insieme all’amico Diego Fuser. Giocare con il numero 7 nel Torino non è come farlo in altre squadre. La mistica che si porta dietro una maglia che fu di Gigi Meroni e di Claudio Sala non sembra però turbarlo più di tanto. Il calcio di Lentini è istintivo, spensierato. Per certi versi, anche un po’ arrogante. In due stagioni mette insieme poche presenze da titolare e tanti spezzoni. L’obiettivo della società è verificarne la tenuta su una stagione intera e così, nell’estate del 1988, viene mandato ad Ancona, in Serie B.

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